La pratica di misurare i valori di pressione arteriosa in occasione di ogni visita medica, in ambulatorio o in ospedale, sta diventando un'abitudine sempre più consolidata. Parallelamente aumenta la consuetudine dei pazienti, ipertesi e non, ma anche dei soggetti sani, di controllare periodicamente (talora anche ossessivamente) i valori pressori a casa e/o in farmacia. Se questa pratica ha indubbi vantaggi nel favorire la diagnosi ed il controllo dell'ipertensione arteriosa, nel contempo moltiplica il riscontro occasionale di valori di pressione elevati: questo riscontro generalmente crea allarme e costituisce sempre più frequentemente motivo di consultazione urgente del proprio medico di fiducia o dello specialista, di chiamata della guardia medica o di accesso al Pronto Soccorso.
A parte i problemi di affidabilità degli strumenti utilizzati e di correttezza della tecnica di misurazione adottata, è ovvio che sotto lo stesso "segno" clinico (valori elevati di pressione arteriosa sistolica e/o diastolica) si collocano condizioni di eziologia e gravità assai diverse che richiedono, ovviamente, una gestione e un trattamento differente caso per caso.
Sembra, invece, che il moltiplicarsi delle richieste di intervento per le cosiddette "crisi ipertensive" (o presunte tali), abbia paradossalmente appiattito la risposta medica ad interventi standardizzati miranti al semplice (e, se possibile, rapido) ripristino del regime pressorio "normale" a prescindere dal contesto clinico/funzionale che ha generato o che accompagna il rialzo della pressione arteriosa. Il ricorso alla nifedipina sublinguale è divenuta una risposta quasi stereotipa, se non automatica, al rilevamento di valori pressori anche solo non rigorosamente nella "norma".
Il percorso che viene qui proposto non deve essere dunque letto come dedicato esclusivamente ad un intervento farmacologico, ma come traccia di comportamento secondo regole di "buon senso informato". Sia nella pratica di medicina generale, che nella realtà di Accettazione-Pronto Soccorso degli ospedali, è verosimile che si potrebbe facilmente descrivere una vera e propria epidem[iolog]ia di casi con caratteristiche di fondo che richiamano il caso che segue.
"Sabato, 31 ottobre 1998: alle ore 9 del mattino si presenta al Pronto Soccorso dell'ospedale una signora di 70 anni che aveva accusato al risveglio temporaneo impaccio motorio agli arti di sinistra. L'esame obiettivo neurologico risulta normale come pure una TAC. Si riscontra, però, una pressione arteriosa di 230/140 mmHg e viene così somminitrata della nifedipina, 10 mg sublinguali. I valori pressori si abbassano rapidamente a 180/85 mmHg ma compare un quadro di franca emiparesi sinistra".
Questo è un esempio di utilizzo improprio della nifedipina sublinguale nelle "crisi ipertensive", verificatosi proprio mentre scrivevo queste note a risposta di un quesito che troppi pochi medici si pongono.
La "nifedipina sublinguale" è entrata ormai nelle consolidate abitudini terapeutiche di migliaia di medici operanti sul territorio, nelle corsie degli ospedali e nei Pronto Soccorso. Come per tutte le terapie (poche, per la verità) per le quali è possibile documentare sul campo un immediato "beneficio", il successo è stato larghissimo: bastano infatti poche gocce sotto la lingua (poco importa se scrupolosi studi hanno documentato che l'assorbimento attraverso la mucosa della bocca è pressoché nullo ed in realtà il farmaco è assorbito a livello intestinale una volta deglutito!) per poter osservare nel giro di qualche minuto un significativo e marcato abbassamento dei valori di pressione arteriosa, con ritorno spesso ad un regime pressorio "normale". Tanto basta a gratificare il medico e, ormai, per consolidata abitudine, anche il paziente. Cosa chiedere di più ad un farmaco?
Prima di ogni intervento medico, terapeutico in particolare, ci si dovrebbe però interrogare sull'obiettivo del nostro agire e sul rapporto rischi/benefici dell'intervento che si pensa di adottare.
Nel caso dell'uso della nifedipina sublinguale nelle cosiddette "crisi ipertensive" (ad esempio una pressione sistolica di 180 mmhg o una pressione diastolica di 120 mmhg) occorre innanzi tutto chiedersi quale è il rischio di complicanze che corre il paziente per l'elevato regime pressorio nei minuti, ore o giorni immediatamente successivi, per decidere se la pressione va ridotta nel giro di pochi minuti, ore o giorni.
É (o dovrebbe essere) noto, infatti, che raramente sono i valori di pressione in sè, per quanto alti, a definire questo rischio quanto piuttosto il contesto clinico nel quale si sviluppano e in particolare: la pressione arteriosa usuale del paziente e la presenza di danni d'organo a livello degli organi bersaglio dell'ipertensione (cervello, cuore, rene). É di fondamentale importanza cioè, prima di iniziare qualsiasi trattamento farmacologico indagare e tenere in considerazione le variabili sottoelencate:
lo stato pressorio usuale del paziente: è ben più grave una condizione di marcata ipertensione in un soggetto con storia di normotensione rispetto a quella di un paziente cronicamente esposto a valori pressori alti. A questo proposito non è inutile ricordare la presenza della cosiddetta "autoregolazione" dei flussi sanguigni a livello dei diversi circoli distrettuali, in particolare di quello cerebrale, che tende a mantenere una costanza di perfusione a fronte di variazioni pressorie. Questo meccanismo di salvaguardia della funzione dei diversi organi può essere messo in crisi per variazioni estreme (in entrambi i sensi) dei valori pressori. In particolare, una elevazione critica dei livelli di pressione arteriosa può superare il limite superiore dell'autoregolazione e creare uno stato di iperperfusione che, a livello cerebrale, può causare edema (con i segni ed i sintomi dell'encefalopatia ipertensiva) e, se non tratttato adeguatamente, portare anche a morte il paziente. In condizioni di cronica elevazione dei valori pressori, l'organismo ritara verso l'alto i limiti dell'autoregolazione: è questo ovviamente un meccanismo di difesa, ma espone il paziente ai rischi di ipoperfusione nel caso di un eccessivo (anche se a valori "normali") e troppo rapido abbassamento dei valori pressori;
la presenza di danni d'organo sviluppatisi acutamente: ad esempio, edema della papilla all'esame del fondo dell'occhio nell'ipertensione cosiddetta maligna;
la presenza di complicanze cliniche a livello degli organi bersaglio dell'ipertensione (ad esempio, infarto miocardico acuto, angina instabile, edema polmonare, dissecazione aortica, encefalopatia ipertensiva, ...), o nel corso di una gravidanza, lo sviluppo di un'eclampsia (tabella 1).
In questi ultimi casi, in presenza cioè di "crisi ipertensiva" nel contesto di un quadro clinico acuto, è ovviamente critico abbassare (non necessariamente normalizzare!) rapidamente i valori pressori; sono queste le situazioni in cui è raccomandabile l'uso di farmaci (quali il nitroprussiato o la nitroglicerina) per via endovenosa, a rapido inizio di azione ed altrettanto breve emivita così da poterne dosare l'effetto ed evitare il sovradosaggio. Nei casi di evidenza di danno d'organo acuto è invece, in genere, sufficiente una riduzione della pressione arteriosa nel corso di qualche ora, con preparati somministrati per via orale e con azione non immediata, quali ad esempio, i diuretici dell'ansa, gli ACE inibitori o i calcio antagonisti a lunga durata di azione. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, in assenza di segni o sintomi riferibili all'ipertensione, pur in presenza di valori pressori elevati, non è necessaria una riduzione immediata; anzi, talvolta, è proprio la brusca riduzione della pressione a causare più di un guaio.
Per l'effetto ipotensivo, talora assai marcato, rapido e protratto, l'uso della nifedipina in formulazione pronta in corso di "crisi ipertensive" è stata associata a numerose segnalazioni in letteratura di gravi effetti indesiderati quali ischemia cerebrale transitoria o ictus, ischemia miocardica o infarto, grave ipotensione, disturbi di conduzione, ecc...
In questo contesto le più recenti raccomandazioni (riprese dall'ultima autorevole versione delle linee guida americane del Joint National Committee on Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure1 sconsigliano l'uso della nifedipina sublinguale nel trattamento delle emergenze/urgenze ipertensive. La stessa Food and Drug Administration non ha mai approvato l'uso della nifedipina in formulazione a pronto rilascio, non solo nel trattamento delle "crisi ipertensive", ma per qualsiasi forma di ipertensione! Usata, infatti, nel contesto della vera emergenza ipertensiva, la nifedipina sublinguale non garantisce la velocità di azione, l'entità dell'effetto e la durata dei preparati per infusione endovenosa; nel ben più frequente utilizzo in presenza di "pseudoemergenza ipertensiva", la nifedipina è stata, invece, addirittura causa di alcuni gravi inconvenienti quali ictus cerebrale o infarto miocardico2.
Rimane da ricordare, comunque, come non esistano studi controllati che valutino su casistiche adeguate il rapporto rischi/benefici di diverse strategie terapeutiche nelle emergenze/urgenze ipertensive, né, tanto meno, nelle cosiddette "pseudoemergenze". Ogni raccomandazione si basa quindi su piccoli studi di semplice efficacia farmacologica, su dati di fisiopatologia, su sporadiche segnalazioni di effetti indesiderati e, soprattutto, sull'esperienza clinica degli estensori delle stesse raccomandazioni (è per questo motivo che ancora oggi in letteratura esistono anche raccomandazioni che non solo non bandiscono, ma addirittura suggeriscono l'impiego della nifedipina sublinguale nelle "crisi ipertensive"!).
In attesa che anche in questo settore della terapia antiipertensiva la ricerca clinica controllata entri a pieno titolo come fonte di dati su cui basare la nostra pratica, il vecchio detto "primum non nocere" dovrebbe guidare il nostro atteggiamento.
Bibliografia
1. Joint National Committee on Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure. The sixth Report of Joint National Committee on Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure (JNC VI). Arch Intern Med 1997; 157: 2413.
2. Grossman E, Messerli FH, Grodzicki T, et al. Should a moratorium be placed on sublingual nifedipine capsules given for hypertensive emergencies and pseudoemergencies? JAMA 1996; 276: 1328-1331.
Informazioni sui Farmaci Anno 1998, n. 6
Fausto Avanzini
Dipartimento di Ricerche Cardiovascolari
Istituto "Mario Negri", Milano