"Se penso che nel nostro paese la questione del dolore è venuta al pettine da così poco tempo, ne traggo una grande amarezza. L'indolenza scientifica, la lentezza burocratica, il moralismo - quanti ammalati, quale moltitudine hanno penalizzato."
(Sergio Zavoli "Il dolore inutile" - Garzanti, 2002)
Fiumi di inchiostro sono stati versati nei secoli sul dolore e sul suo significato nella vita dell'uomo. Filosofi, religiosi, scrittori, prima ancora dei medici e degli psicologi, hanno parlato del dolore e hanno plasmato il nostro modo di intenderlo. Ogni cultura ha la propria concezione del dolore: per la cultura occidentale ad esempio il dolore è, ancora per molti, una maledizione biblica, una sofferenza imposta all'uomo dalla sua natura, una condizione attraverso la quale tuttavia egli può riscattarsi dalle proprie colpe ed elevarsi spiritualmente.
Per tutti comunque il dolore è una esperienza drammatica. Secondo i dati forniti dal Ministro della Salute, i malati terminali che ogni anno, in Italia, necessitano di cure palliative sono 250.000: 160.000 con malattie di natura oncologica e 90.000 con altre patologie (cardiache, respiratorie, neurologiche e infettive). Accede tuttora al programma di cure palliative solo il 40% dei malati oncologici e meno dell'1% di quelli non oncologici. Perché il dolore non viene trattato al meglio delle possibilità disponibili? Non dovrebbe essere naturale per la medicina curare il "dolore" così come cura (o si propone di curare) ogni altra malattia? Non dovrebbe essere "normale" offrire a chi sta soffrendo la cura più adeguata? Se le domande sono semplici le risposte non lo sono affatto.
Fino a non molti anni fa, il dolore era considerato semplicemente il sintomo inevitabile di altre malattie e non un problema da affrontare di per sè: non esistevano "reparti" e non c'erano medici specialisti per la cura del dolore, salvo pochi casi isolati. In generale, il dolore non veniva "curato": al massimo lo si trattava con dosi parsimoniose di oppiacei quando diventava intollerabile. La morfina, il farmaco principe nel trattamento del dolore, in pratica non veniva utilizzata dai medici per il timore di rendere il paziente "dipendente" dal farmaco e di abbreviarne la vita a causa degli effetti indesiderati. Ma la morfina non veniva vista favorevolmente nemmeno dai malati. Per molti era il segno dell'incurabilità del proprio male e piuttosto di arrivare allo stadio del trattamento preferivano sopportare la sofferenza. Chi ne conosceva il potere "stupefacente" nel sedare i dolori più intensi, a fatica si liberava dell'idea di essere un "drogato", meritevole di disapprovazione sociale. Ciò che impediva l'impiego dei farmaci analgesici era prima di tutto un blocco culturale, un rifiuto della morfina e degli altri oppiacei che interessava sia l'organizzazione sanitaria che i malati.
In questo clima culturale di timore e disinformazione, purtroppo anche degli stessi sanitari, e di rassegnazione dei pazienti, i vincoli normativi erano ovviamente tesi a controllare strettamente ogni singola fase del cammino del medicinale stupefacente, dalla produzione fino alla vendita, per evitare abusi. A partire dal 1975, vennero imposti rigidi adempimenti burocratici sia alla prescrizione da parte del medico che alla dispensazione da parte del farmacista e il loro mancato rispetto era pesantemente sanzionato per via amministrativa e penale. In queste condizioni molti medici non prescrivevano medicinali stupefacenti e molti farmacisti non tenevano le dovute scorte per il timore di incorrere in sanzioni. Di qui, l'odissea di molti malati, o dei loro parenti, per accedere ai farmaci per il dolore, spesso non disponibili in tutte le farmacie, dovendo spesso far ritorno all'ambulatorio medico per far apporre una correzione, spesso puramente formale, ad una ricetta che altrimenti non sarebbe stata "spedibile", per legge, dal farmacista.
Un blocco culturale e legislativo, dunque, contro il quale si sono schierati medici coraggiosi, giustamente convinti che il dolore andasse trattato come qualsiasi altra malattia, che la morfina e gli altri oppiacei, quando impiegati a scopo terapeutico, non sono "droghe" ma farmaci come tanti altri. Grazie a questi medici, e agli uomini di cultura che hanno sostenuto le loro posizioni, nel 2001 si giunse alla costituzione dei comitati "Ospedale senza dolore" a seguito di un accordo tra il Ministero della Salute e le Regioni e venne emanata una prima legge che introduceva regole più semplici per la prescrizione degli analgesici stupefacenti (es. morfina) nella terapia del dolore. Iniziò così un processo di semplificazione della prescrizione che avrebbe dovuto portare un miglioramento del trattamento del dolore anche al domicilio del malato. Se da un lato la semplificazione normativa si proponeva di facilitare l'accesso ai farmaci disponibili, il mercato dall'altra dava il suo contributo, grazie alla commercializzazione di molti "nuovi" medicinali somministrabili per bocca o con la semplice applicazione di un cerotto, ampliando l'armamentario terapeutico del medico e consentendogli di scegliere il farmaco giusto e la formulazione più conveniente per ogni paziente.
I dati forniti dal ministero e l'opinione di molti esperti confermano tuttavia che la terapia del dolore in Italia rimane tuttora carente e le parole di Sergio Zavoli, scritte all'indomani dell'approvazione della Legge n.12 del febbraio 2001 conservano ancora la loro drammaticità. Dopo 9 anni da quella legge, che pure aveva segnato importanti miglioramenti, è stato necessario perciò approvarne un'altra. La legge n. 38 del marzo 2010 (Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore), voluta da tutte le forze politiche, è una legge organica, nel senso che non si limita ad affrontare il problema solo dal punto di vista farmacologico, perché per sconfiggere il dolore non basta l'analgesico. Il dolore non colpisce solo il fisico, ma anche la psiche, l'immagine di sé, i rapporti sociali del malato.
Per questo la legge si articola in una serie di interventi che dovrebbero, nel loro insieme, modificare l'attuale stato delle cose prevedendo:
• la creazione di reti nazionali per le cure palliative e per la terapia del dolore, volte a garantire la continuità assistenziale del malato dalla struttura ospedaliera al suo domicilio. Saranno costituite dall'insieme delle strutture sanitarie, ospedaliere e territoriali, e assistenziali nonché delle figure professionali e degli interventi diagnostici/terapeutici disponibili a livello regionale, dedicati all'erogazione delle cure palliative e al controllo del dolore in tutte le fasi della malattia (con particolare riferimento alle fasi avanzate e terminali della stessa) e supporteranno i malati e i loro familiari;
• l'individuazione di specifici percorsi formativi in materia di cure palliative e di terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative per il personale medico e sanitario, nonché l'individuazione di figure professionali con specifiche competenze ed esperienza nel campo delle cure palliative e della terapia del dolore;
• la rilevazione del dolore all'interno della cartella clinica: nelle sezioni medica ed infermieristica della cartella clinica dovranno ora essere riportate le caratteristiche del dolore rilevato e della sua evoluzione nel corso del ricovero, nonché la tecnica antalgica e i farmaci utilizzati, i relativi dosaggi e il risultato antalgico conseguito. Se è vero che il dolore è una esperienza personale, non misurabile in modo oggettivo come si fa con la temperatura corporea o la pressione arteriosa, esistono tecniche di misura (scale analogiche) e di valutazione (questionari) attraverso i quali il malato può descrivere questa sua esperienza. L'inclusione del parametro dolore nella cartella clinica viene quindi ad avere la stessa validità diagnostica e a richiedere la stessa dignità terapeutica degli altri dati clinici che vengono regolarmente rilevati al letto del malato. Inoltre, non si parla più del solo dolore dovuto ad un tumore ma anche di altre forme di dolore, come ad esempio quello post-operatorio;
• la semplificazione delle procedure di accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore, allentando ulteriormente i lacci e gli "impedimenti" burocratici alla prescrizione degli stupefacenti (operazione iniziata appunto con la legge del 2001). Di fatto sono state eliminate molte delle formalità prima richieste per la prescrizione degli analgesici stupefacenti somministrati per via non iniettabile (orale o transdermica), facilitando quindi il compito a medici e farmacisti. Restano invece in vigore modalità di prescrizione più restrittive per la morfina e altri oppiacei quando somministrati per via iniettiva (es. nella formulazione in fiale).
Infine, il Ministero dovrà promuovere nei prossimi 3 anni, campagne di informazione rivolte ai cittadini sulle modalità e sui criteri di accesso alle prestazioni e ai programmi di assistenza in materia di cure palliative e di terapia del dolore. Le stesse farmacie, assieme ai medici di medicina generale, ai pediatri e ad altre associazioni dovranno presto essere chiamate a collaborare alla realizzazione di queste iniziative.