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Controllo pressorio
Negli ultimi anni è emersa un'importante mole di evidenze riguardo il ruolo del controllo pressorio nei soggetti con diabete di tipo 2 (Tabella 3). L'importanza di un controllo più aggressivo della pressione arteriosa è stata sottolineata soprattutto da due trial pubblicati nel 1998: l'HOT e l'UKPDS. Nello studio HOT i pazienti diabetici randomizzati ad un target di pressione diastolica 80 mmHg presentavano un rischio significativamente più basso sia di eventi cardiovascolari maggiori che di morte rispetto a soggetti con target 90 mmHg9. L'UKPDS ha dimostrato che, ponendo come target valori <150/85 mmHg, si può ridurre in modo sostanziale il rischio di complicanze (sia micro che macrovascolari) e di morte, sia che si usi un ACE-inibitore che un ß-bloccante10. Tuttavia la compliance a lungo termine era superiore per i pazienti trattati con ACE-inibitore rispetto a quelli che ricevevano atenololo (78% vs. 65%), soprattutto per la più alta incidenza di broncospasmo e disturbi vascolari periferici. Inoltre i soggetti trattati con ß-bloccante presentavano nei primi 4 anni livelli più elevati di HbA1c (7,5% contro 7,0% in quelli trattati con captopril) e dovevano ricorrere più spesso a terapia ipoglicemizzante supplementare11.
E' inoltre importante sottolineare come il mantenimento a lungo termine di adeguati valori pressori abbia richiesto in una larga fascia di pazienti un trattamento con due o più farmaci antiipertensivi.
Mentre dall'UKPDS emerge una sostanziale equivalenza di efficacia fra i trattamenti testati, altri trial sembrano mostrare un vantaggio dall'uso degli ACE-inibitori rispetto agli altri trattamenti antiipertensivi. Ad esempio lo studio CAPPP metteva a confronto il trattamento con captopril con una terapia convenzionale con diuretico o ß-bloccante. In questo studio, mentre sul totale del campione (10.985 soggetti ipertesi) l'ACE-inibitore non mostrava un'efficacia significativamente superiore ai trattamenti convenzionali nel prevenire la morbilità e la mortalità cardiovascolare, ma determinava anzi un eccesso di rischio di ictus, nei soggetti diabetici (n=572) si assisteva ad una riduzione significativa del rischio cardiovascolare, senza effetto sugli eventi cerebrovascolari12. La superiorità degli ACE-inibitori rispetto ai Ca-antagonisti è stata invece documentata in diversi studi, che hanno mostrato un eccesso di eventi cardiovascolari nei soggetti trattati con quest'ultima classe di farmaci. In particolare, lo studio ABCD, che confrontava l'efficacia della nisoldipina e dell'enalapril in pazienti sia normotesi che ipertesi, ha documentato un eccesso di episodi di infarto del miocardio nei pazienti randomizzati al trattamento con il Ca-antagonista rispetto a quelli trattati con l'ACE-inibitore13,14. Analogamente, lo studio FACET ha evidenziato una frequenza maggiore dell'evento combinato ictus, infarto e ospedalizzazioni per angina nei soggetti randomizzati al trattamento con amlodipina rispetto a quelli assegnati al fosinopril15.
Peraltro, l'eccesso di rischio di eventi cardiovascolari nei soggetti trattati con Ca-antagonisti diidropiridinici era già stato in precedenza evidenziato in altri studi, soprattutto di tipo osservazionale16. Non vanno tuttavia dimenticati i risultati dello studio Syst-Eur, fra l'altro molto criticati17, che dimostrano il beneficio del trattamento con nitrendipina rispetto al placebo nel prevenire gli eventi cardio-cerebrovascolari in pazienti anziani (60 anni) con pressione sistolica isolata18. Il ruolo di questa classe di farmaci, ampiamente utilizzati nella pratica clinica, resta pertanto controverso.
Altri dati interessanti che riguardano la popolazione di pazienti anziani con ipertensione sistolica isolata derivano dallostudio SHEP. In questo studio l'uso di clortalidone a basse dosi come trattamento iniziale si è dimostrato in grado di diminuire di un terzo il tasso di eventi cardio e cerebrovascolari, riducendo al tempo stesso al minimo gli effetti indesiderati della terapia antiipertensiva19.
Maggiori informazioni riguardo l'efficacia comparativa delle diverse classi di farmaci antiipertensivi saranno presto disponibili grazie ad un trial di enormi dimensioni in corso di svolgimento, lo studio ALLHAT. In questo trial oltre 40.000 soggetti ipertesi, di cui un terzo diabetici, sono stati randomizzati ad essere trattati con clortalidone, doxazosina, amlodipina o lisinopril. I risultati di un'analisi ad interim dello studio, resi noti nell'aprile di quest'anno, hanno tuttavia portato alla prematura chiusura del braccio di trattamento con doxazosina. La chiusura precoce di tale braccio è stata motivata da un eccesso di rischio di end-point secondari quali ictus (+19%), end-point cardiovascolare combinato (+25%) e di scompenso cardiaco (rischio raddoppiato) rispetto al gruppo di controllo, trattato con clortalidone. L'entità del rischio era sovrapponibile nei soggetti diabetici e non diabetici. Tali risultati vanno tuttavia interpretati con cautela, poiché basati solo sull'analisi di un end-point secondario, mentre nessuna differenza è stata evidenziata per quanto riguarda l'end-point primario (eventi cardiovascolari fatali ed infarto non fatale)20.
Buone notizie vengono invece da un altro trial di grandi dimensioni, lo studio HOPE, che ha dimostrato il ruolo degli ACE-inibitori a basse dosi nei soggetti sia normo che ipertesi, in aggiunta alle terapie in corso, nel ridurre gli eventi cardiovascolari e la progressione della nefropatia. Questo studio riguardava 3577 soggetti di età 55 anni, con precedente infarto o con altri fattori di rischio, randomizzati a ricevere ramipril o placebo. Lo studio è stato interrotto prematuramente, dopo 4,5 anni, a seguito dell'evidente beneficio del trattamento sugli eventi cardio-cerebrovascolari maggiori e sulla progressione della nefropatia. Il beneficio persisteva anche dopo averaggiustato l'analisi per le variazioni della pressione arteriosa, ad indicare un effetto vasculo e renoprotettivo indipendente21.
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Controllo lipidico
Sono senz'altro meno numerosi gli studi che indagano i benefici del controllo lipidico nei soggetti diabetici (Tabella 4), e si tende in generale a trasferire a questo sottogruppo i risultati di grandi studi condotti su popolazioni più ampie. Questo discorso si applica soprattutto agli interventi di prevenzione primaria, in cui dati specifici sul diabete sono pressoché assenti, mentre alcuni risultati importanti sono disponibili per la prevenzione secondaria. D'altra parte, il rischio di malattie cardiovascolari risulta particolarmente elevato nella popolazione diabetica e paragonabile a quello di soggetti non diabetici con storia pregressa di eventi maggiori. Per tale motivo, si tende generalmente a raccomandare nei soggetti diabetici lo stesso approccio riservato in prevenzione secondaria ai soggetti non diabetici 22-24. I dati più consistenti derivano da tre studi, 4S, CARE e LIPID, che dimostrano il ruolo delle statine. Nello studio 4S è stato valutato il ruolo della terapia ipocolesterolemizzante con simvastatina in 4444 soggetti con precedente infarto del miocardio, seguiti per oltre 5 anni. I soggetti arruolati in questo studio presentavano valori medi di LDL colesterolo abbastanza elevati (185 mg/dl). Un'analisi separata riguardante i 202 soggetti diabetici inclusi nello studio ha mostrato come, agendo sulla dislipidemia, sia possibile dimezzare il rischio di nuovi eventi cardiovascolari25,26. Lo studio CARE riguardava invece 4159 soggetti, di cui 586 con diabete, randomizzati a trattamento con pravastatina o placebo. In questo studio i valori medi di LDL colesterolo dei soggetti arruolati erano notevolmente inferiori (139 mg/dl). La terapia ipolipemizzante era associata nei soggetti diabetici ad una riduzione del 25% del rischio di eventi cardiovascolari maggiori e del 32% del rischio di procedure di rivascolarizzazione, mentre i dati sulla mortalità non sono stati ancora pubblicati. In questo studio sono stati inoltre valutati separatamente 342 soggetti non diabetici ma con glicemia a digiuno compresa fra 110 e 125 mg/dl (definita impaired fasting glucose in base alla nuova classificazione ADA). Questi soggetti presentavano un rischio più elevato di reinfarto rispetto ai soggetti con glicemia nella norma (13% vs. 10%) e tale rischio si dimezzava nei pazienti che assumevano pravastatina rispetto a quelli assegnati al placebo27,28.
Infine, lo studio LIPID ha arruolato 9014 pazienti (782 diabetici) con storia precedente di infarto del miocardio o di ospedalizzazione per angina instabile, randomizzati al trattamento con pravastatina o al placebo. I livelli medi di LDL colesterolo all'ingresso nello studio erano di 150 mg/dl. Dopo 6 anni di osservazione, nei soggetti diabetici trattati con pravastatina si osservava una riduzione del 19% del rischio dell'end-point combinato (morte per cause cardiovascolari + infarto non fatale), senza tuttavia che fosse raggiunta la significatività statistica a causa del basso numero di eventi29,30.
Per quanto riguarda la terapia con fibrati, i soli dati di interventi in prevenzione secondaria su pazienti diabetici derivano dallo studio VAHIT, nel quale 2531 pazienti (627 diabetici) sono stati randomizzati ad assumere gemfibrozil o placebo. All'ingresso nello studio, i pazienti presentavano valori di HDL 40 mg/dl e di LDL 140 mg/dl. Dopo una mediana di follow-up di 5 anni, i soggetti diabetici assegnati al trattamento con fibrati presentavano una riduzione del 24% del rischio dell'end-point combinato (morte per cause cardiovascolari+infarto non fatale+ictus)31.
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Approccio multifattoriale
Tutti i dati emersi sottolineano l'importanza di un approccio più aggressivo e su più fronti per evitare la morbidità e la mortalità legati al diabete. A questo proposito, sono stati di recente pubblicati irisultati dello Steno Study, nel quale 160 pazienti con diabete di tipo 2 con microalbuminuria sono stati randomizzati ad essere assistiti con un approccio aggressivo multifattoriale o con modalità standard. L'approccio intensivo prevedeva interventi comportamentali (dieta, esercizio fisico, fumo), uno stretto controllo metabolico, pressorio e lipidico, e l'uso di ACE-inibitori (anche nei normotesi), aspirina e antiossidanti (Tabella 5). A distanza di quasi 4 anni, sono state evidenziate marcate differenze nel tasso di progressione delle complicanze microvascolari e nell'endpoint combinato mortalità+eventi macrovascolari32 (Tabella 6).
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Conclusioni
Le evidenze derivanti dalle sperimentazioni cliniche controllate rendono sempre più chiara la necessità di un'assistenza "complessiva" al diabete di tipo 2, con un elevato livello di attenzione al controllo di tutti i fattori di rischio cardiovascolare, e non solo della glicemia. Parallelamente, l'attenzione si sta tuttavia focalizzando sul concetto di "approccio personalizzato", basato sul profilo di rischio del soggetto e sulla presenza di comorbidità. A tale proposito, sono oggi disponibili numerose "carte di rischio" che, sulla base dei dati epidemiologici, permettono di tracciare il profilo di rischio cardiovascolare del singolo individuo33,34. Mentre, infatti, i risultati dei trial clinici e le linee guida esistenti forniscono indicazioni medie riguardo i benefici attesi, per il singolo paziente diventa importante un'attenta valutazione del rapporto rischio/beneficio dei vari interventi, soprattutto nell'ottica di una terapia polifarmacologica di lunga durata. Ad esempio, in un soggetto di 75 anni senza nefropatia, il rischio di sviluppare insufficienza renale nel corso della vita è dello 0.1% e quello di cecità ancora inferiore35; di converso, il rischio di eventi cardio-cerebrovascolari è estremamente elevato, superando il 10% annuo. In questo tipo di soggetti, il controllo dei fattori di rischio cardiovascolare è quindi di gran lunga più importante, mentre un controllo metabolico troppo aggressivo potrebbe addirittura aggravare il rischio di eventi, a causa di ipoglicemie.
L'approccio multifattoriale non può inoltre prescindere dall'intervento sull'alimentazione, l'attività fisica e il fumo. Gli aspetti educativi restano, infatti, il cardine dell'assistenza diabetologica, ed il loro ruolo va ulteriormente enfatizzato per quella fascia di soggetti che, sebbene definiti diabetici in base alla nuova classificazione (glicemia a digiuno >125 mg/dl), sicuramente necessiteranno più di interventi preventivi che di terapie polifarmacologiche aggressive.
In conclusione, la sfida che si pone al medico di medicina generale è quella di sviluppare modalità assistenziali in grado di accrescere le capacità dell'individuo di ridurre quanto più possibile i propri fattori di rischio. E' chiaro tuttavia che gli sforzi del solo medico di famiglia non possono essere sufficienti e che l'approccio multidisciplinare ed il coinvolgimento attivo del paziente nella gestione del diabete rimangono fattori imprescindibili. Il medico di medicina generale resta tuttavia l'interlocutore privilegiato per l'integrazione e il monitoraggio delle terapie polifarmacologiche necessarie e per assicurare continuità agli interventi educativi necessari per il raggiungimento di quegli obiettivi di salute stabiliti su base individuale.
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