Una metanalisi Cochrane di 72 RCT che hanno confrontato una sulfanilurea in monoterapia verso placebo o verso altri ipoglicemizzanti orali su più di 22.500 pazienti dimostra che non vi sono differenze significative tra sulfaniluree e metiglinidi nell’insorgenza delle ipoglicemie gravi9. Tra gli studi osservazionali, non sono molti quelli prospettici che hanno operato una distinzione analitica tra diversi gradi di gravità degli eventi ipoglicemici. Uno dei più grandi trial sul diabete mellito tipo 2 mai realizzati, lo UKPDS, ha valutato la frequenza annuale degli episodi ipoglicemici in oltre 5.000 pazienti di età compresa tra 25 e 65 anni trattati con insulina, metformina (se sovrappeso) o sulfaniluree in monoterapia, seguiti per 6 anni. I partecipanti sono stati stratificati sulla base della concentrazione di HbA1c e delle caratteristiche degli episodi ipoglicemici. Escludendo gli episodi transitori che non compromettono l’autonomia funzionale, solamente il 2,5% dei pazienti ha riportato almeno un episodio ipoglicemico all’anno, ma se si considerano solo gli episodi più gravi (che richiedono aiuto di terzi o che richiedono intervento medico, secondo la definizione dello studio) la proporzione diviene molto bassa (0,55%). Come era prevedibile, la frequenza annua degli episodi ipoglicemici è maggiore nei pazienti trattati con insulina (3,8%) rispetto ad altre classi di farmaci (sulfaniluree 1,2%, metformina 0,3%), e nei pazienti con livelli di HbA1c più elevati, che devono fare ricorso a terapie più aggressive per il controllo dei valori glicemici10. L’incidenza di ipoglicemia grave è risultata strettamente correlata alla durata della malattia; nello studio, gli eventi gravi sono comparsi nei pazienti con diabete da oltre 9 anni11. In un altro studio osservazionale retrospettivo, l’unico ad avere stratificato l’incidenza degli eventi per singolo farmaco in uso, tra i 7.687 diabetici seguiti per un anno, i casi di ipoglicemia grave nei pazienti trattati con una sulfanilurea sono stati pari a 0,9 eventi/100 pazienti/anno (vs 0,05% con metformina e 11,8% con insulina)12.
correggere l’iperglicemia. D’altra parte esistono presupposti biochimici e patogenetici che anche le ipoglicemie associate a questi trattamenti potrebbero costituire un fattore di rischio per eventi cardiovascolari. Questo aspetto è di estrema importanza, anche in considerazione del fatto che trattamenti intensivi mirati a uno stretto controllo glicemico non sempre hanno mostrato una riduzione della frequenza di eventi macrovascolari. L’importanza prognostica degli episodi ipoglicemici in relazione alla loro gravità clinica e il possibile legame tra ipoglicemie ripetute e rischio cardiovascolare sono aspetti molto dibattuti in ambito diabetologico. Dato per scontato che una ipoglicemia grave, con necessità di intervento medico, sia un evento da evitare in ogni caso, in molti si chiedono se sia lecito considerare gli episodi ipoglicemici lievi e paucisintomatici come trascurabili e privi di implicazioni prognostiche. Prendendo in esame le evidenze scientifiche a nostra disposizione è necessario fare alcune considerazioni generali, innanzitutto sulle caratteristiche delle popolazioni degli studi: nelle persone con diabete il rischio di eventi ischemici macro - e microvascolari (le principali e più temibili complicanze della malattia diabetica) aumenta con la durata di malattia, parallelamente alla necessità di ricorrere a schemi terapeutici più aggressivi che aumentano il rischio di ipoglicemie. È quindi logico, nelle popolazioni più seriamente interessate dalla malattia, aspettarsi una maggiore frequenza di eventi ischemici e allo stesso tempo una maggiore frequenza di ipoglicemie. Come già accennato precedentemente, le ipoglicemie sono globalmente rare tra i pazienti trattati con farmaci ipoglicemizzanti orali e anche gli eventi cardiovascolari sono poco comuni. Studi prospettici hanno osservato che il 7,2% dei pazienti ad alto rischio dopo 2-3,5 anni16,19 e il 10,6% dopo 5 anni18 presenta un evento cardiovascolare. Ciò rende difficile raccogliere un numero di eventi (ipoglicemici e cardiovascolari) sufficientemente grande da consentire una misura di associazione precisa, a meno di reclutare campioni molto numerosi, seguendoli per periodi lunghi, dell’ordine di anni. Inoltre, la già accennata eterogeneità con cui vengono definiti gli episodi ipoglicemici da studio a studio rende difficile calcolare stime precise, anche facendo ricorso alle metanalisi. L’ipoglicemia acuta determina nell’organismo una risposta adrenergica con effetti sul sistema cardiovascolare, con aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sistolica e modificazioni della ripolarizzazione cardiaca (soprattutto allungamento dell’intervallo QT). Tali modificazioni, per quanto costituiscano una risposta fisiologica alla ipoglicemia e siano ben tollerate dall’organismo sano, potrebbero precipitare un evento ischemico e perfino una morte improvvisa nella persona con diabete, soprattutto se già portatrice di una cardiopatia ischemica cronica17. Ovviamente non è semplice stabilire con certezza nel singolo caso se un episodio ischemico è stato causato da una improvvisa ipoglicemia, dato che sarebbe necessario un monitoraggio glicemico ed elettrocardiografico del paziente. È possibile d’altro canto esaminare le casistiche e cercare eventuali nessi di associazione tra ipoglicemie ed eventi cardiovascolari su grandi numeri, ma in questo senso i dati sono purtroppo discordanti. I più grandi studi che hanno esaminato la frequenza di eventi cardiovascolari nel diabete (ADVANCE, ACCORD e VADT, con quasi 24.000 pazienti inclusi in totale) mostrano che - rispetto a un approccio clinico meno stringente - uno stretto controllo della glicemia non produce effetti significativi, né sugli endpoint cardiovascolari, né sulla mortalità da cause cardiovascolari, sebbene la frequenza degli episodi ipoglicemici gravi sia stata sensibilmente più elevata in tutti i bracci degli studi sottoposti a un controllo glicemico più rigoroso18-20. Lo studio ACCORD è stato sospeso prematuramente per eccesso di mortalità nel braccio sottoposto a un controllo intensivo della glicemia e una delle ipotesi possibili è che il maggior numero di decessi possa essere stato anche in relazione a una maggiore frequenza di ipoglicemie gravi. La mortalità grezza annuale era più alta tra i pazienti che avevano avuto almeno un episodio ipoglicemico grave rispetto a chi non lo aveva avuto, sia nel braccio sottoposto a management intensivo della glicemia (2,8% vs 1,2%), sia in quello di controllo (3,7% vs 1,0%); tuttavia, considerando in entrambi i bracci solo i pazienti che avevano avuto una ipoglicemia grave, la mortalità era più alta nel gruppo di controllo. Pertanto i ricercatori del gruppo ACCORD hanno concluso che gli episodi ipoglicemici gravi non spiegavano le differenze di mortalità che hanno portato alla interruzione dello studio19,17. Lo studio VADT invece ha mostrato che il verificarsi di un grave episodio ipoglicemico è un importante predittore di decesso per cause cardiovascolari20. Nello studio ADVANCE si è osservata complessivamente una minore incidenza di episodi ipoglicemici gravi rispetto agli altri due studi, e nessuna differenza in termini di mortalità globale o cardiovascolare tra braccio intensivo e braccio standard. Sebbene le ipoglicemie gravi siano state fortemente associate a complicanze micro - e macrovascolari e al decesso (per cause cardiovascolari e non), gli autori non hanno riscontrato uno stretto nesso temporale tra ipoglicemia ed eventi, né un effetto dose-risposta tra gravità della ipoglicemia e il verificarsi dell’evento, pertanto concludono che la ipoglicemia potrebbe essere un marker di vulnerabilità, piuttosto che un fattore causale di esiti cardiovascolari18. Non va dimenticato che in questi studi una sostanziale percentuale di pazienti era sottoposta a terapia con insulina, che comporta un maggior rischio di eventi ipoglicemici rispetto agli ipoglicemizzanti orali. Tuttavia, anche considerando solo gli studi su questi ultimi, i dati non forniscono risposte chiare e univoche. In particolare, i farmaci incretino-simili DPP - 4i, come precedentemente ricordato, presentano un aspetto innovativo rispetto ad altre classi di ipoglicemizzanti orali in relazione al loro meccanismo d’azione “antiiperglicemizzante”, spesso enfatizzato in relazione ad una presunta minore propensione a causare ipoglicemia rispetto ad altri ipoglicemizzanti, soprattutto secretagoghi come sulfaniluree e repaglinide. Due recenti studi randomizzati controllati con placebo, con l’obiettivo di valutare la frequenza di eventi cardiovascolari associata all’aggiunta di alogliptin e saxagliptin alla terapia usuale in pazienti diabetici con storia di eventi cardiovascolari o ad alto rischio cardiovascolare, non hanno dimostrato differenze tra i due gruppi21,16. Inoltre, nel già citato studio SAVOR - TIMI 53, l’uso di saxagliptin si è associato ad una incidenza inaspettatamente elevata di ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca (3,5% vs 2,8% nel braccio placebo), il cui meccanismo causale non è chiaro. Tralasciando i dati relativi alle ipoglicemie e considerando l’efficacia dei farmaci studiati, è sconcertante notare come, pur seguendo per lungo tempo un alto numero di pazienti (complessivamente oltre 20.000) ad alto rischio, non si notino differenze riguardo a un endpoint che dovrebbe essere - prima che un indicatore di sicurezza - il principale indicatore di efficacia dei farmaci per la cura del diabete, molto più importante e clinicamente rilevante della variazione della glicemia.