Rimando ad altri testi per una storia delle ondate riduzionistiche (i modelli psicofarmacologici e genetici della mente, le evidenze neurobiologiche del neuroimaging, l’ordine biostatistico e il primato delle “evidenze”, l’approccio esclusivamente fenomenologico o psicoanalitico), che si sono succedute, abbattute?, nell’ambito della psichiatria4,6. Segnalo tuttavia che anche il DSM-5 corre il rischio di diventare una sorta di vademecum dello psichiatra moderno con una ipersemplificazione diagnostica e farmacologica, come se fosse solo il paradigma tecnologico, un altro riduzionismo!, a dover guidare la pratica clinica. A questo proposito, un gruppo di ricercatori anglosassoni8 si chiede quali siano le doti del bravo psichiatra moderno che rischia, visto il clima culturale in cui si è sviluppato il DSM-5, di divenire una sorta di neuroscienziato clinico paradossalmente sprovvisto di mente e di cultura, mentre pare sempre più evidente, questa è la loro tesi, che alle conoscenze biologiche debba affiancare competenze “che vanno oltre l’ambito del cervello e coinvolgono dimensioni sociali, culturali e psicologiche tra cui l’importanza delle relazioni terapeutiche e della comprensione narrativa”. Insomma è l’ennesima giravolta e si torna sempre all’antico: la diagnosi è in qualche modo necessaria ma non basta, perché senza un contatto col mondo emotivo del paziente non può esistere una relazione di cura viva ed efficace. Inoltre la sola nosografia rischia di essere una lista ossessiva di sintomi e sindromi limitata, senza l’intreccio con le vicende personali e con le storie di vita del paziente, ed infine la clinica è sempre più complicata e stimolante del pur necessario tentativo di descriverla. Se da un lato è il modello medico ad essere uno strumento indispensabile a porre diagnosi, dall’altro è la dimensione empatico-narrativa, che consente di raccogliere dei dati, di aggregarli per cercare di rappresentare dentro di noi il paziente. Queste sono dunque le redini dell’incontro psichiatrico di cui tenere conto in un reciproco equilibrio dinamico. La diagnosi in psichiatria e alcuni punti deboli del DSM-5 In estrema sintesi, se il procedimento diagnostico, per il medico, inizia dalla raccolta anamnestica e dall’esame obiettivo fisico, che rappresentano il punto di partenza per una ricerca delle informazioni utili e necessarie, attraverso anche esami ed accertamenti, per arrivare così ad una diagnosi da cui discenda un’adeguata terapia, lo stesso non si può affermare per la diagnosi psichiatrica. A tutt’oggi infatti non ci sono test biologici, basati su geni, marcatori nel sangue o immagini cerebrali, che siano d’aiuto a porre diagnosi specifiche di malattia mentale e la diagnosi si basa prevalentemente sulla competenza, sull’esperienza e sulla sensibilità del clinico. D’altra parte la diffusione crescente dei disturbi psichici nel corso della vita della popolazione (in Europa è calcolata appena inferiore al 40%, vicina al 50% negli Stati Uniti) si è accompagnata negli anni ad un aumento vertiginoso della prescrizione psicofarmacologica. Ciò può indurre a vari ordini di riflessione: da un lato che alcune categorie diagnostiche introdotte nel DSM-5, quelle ai confini tra reazione normale e patologica, siano assai fragili sul piano della loro realtà clinica, come il disturbo cognitivo minore, il disturbo psicosomatico, il disturbo da disregolazione dirompente dell’umore e da alimentazione incontrollata, con il rischio di ampliare l’etichettamento psichiatrico senza alcun vantaggio per la salute individuale e collettiva9. Dall’altro che l’eccesso di diagnosi psichiatriche, con le conseguenti indicazioni farmacologiche mirate, sembri suggerire una sorta di via medica semplificata nella soluzione dei problemi mentali, cortocircuitando la complessità del funzionamento della mente umana. Anche la reazione fisiologica di lutto alla perdita di una persona cara rischia in questa ottica medicalizzante di diventare una patologia depressiva maggiore da trattare farmacologicamente e non un evento di vita doloroso e inevitabile. Un ambito nel quale invece non sono state fatte modificazioni è quello pertinente i Disturbi di Personalità, per i quali le più recenti linee guida mostrano come l’indicazione terapeutica principale sia psicoterapeutica e non farmacologica. Ciò significa ad esempio che non esistono farmaci specifici per la sintomatologia propria del Disturbo Borderline di Personalità e si potrebbe allora avanzare il sospetto che per questo motivo non ci siano state pressioni abbastanza forti per apportare le già attese modifiche della classificazione del II Asse del DSM-5, che riguarda i Disturbi di Personalità. In ogni modo, esplicativo e interessante è il titolo del libro di Allen Frances10, uno degli estensori del DSM IV, ma particolarmente critico nei confronti del DSM-5, “Primo non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie”. È su questa linea del resto che si è sempre mosso nella nostra regione Il Programma Giuseppe Leggieri di collaborazione tra MMG e psichiatri dei CSM a questo compito dedicati11, che si spera abbia sviluppato gli anticorpi adatti per combattere questa deriva iperdiagnostica e medicalizzante.
A mo’ di conclusione La buona psichiatria sembra allora essere costituita da un insieme di scienza medica e di storia: ampie categorie diagnostiche servono infatti ad organizzare trattamenti terapeutici pensati per adattarsi al singolo paziente, ognuno caratterizzato dalle proprie peculiarità biologiche, biografiche, sociali e personali, da una propria vita emotiva e dalla storia più o meno travagliata del suo sviluppo. A fronte di questa complessità che si rinnova in ogni nuovo incontro, di solito lo psichiatra esperto ha sviluppato negli anni un suo metodo artigianale appreso nella bottega della clinica dai propri maestri e dalla pratica personale, una sorta di scaletta interna, che consente di toccare i punti necessari alla raccolta dei sintomi per arrivare, attraverso l’esame psichico, ad una diagnosi psichiatrica “larga”, suscettibile di modificazioni nel tempo. Nello stesso tempo è indispensabile creare le condizioni per un dialogo semplice e naturale perché il paziente non si senta solo investigato, ma accolto e compreso nei suoi aspetti di sofferenza psicopatologica e personale. Ed ancora cercare di completare la diagnosi descrittiva, considerata come ipotesi di sintesi provvisoria e parziale, con una diagnosi più “calda” ed articolata che riguarda la soggettività non solo del paziente, ma anche ciò che il rapporto di cura produce sul versante emotivo interno dell’esaminatore, strumento di comprensione importantissimo del clima emotivo compresente nell’altro. Con queste poche righe spero di aver trasmesso l’idea della complessità e delle peculiarità nell’incontro con la sofferenza mentale, l’altra faccia della luna che il DSM-5 non può prendere in considerazione né tentare di rappresentare.