La fibrillazione atriale (FA) è un'anomalia del ritmo cardiaco multifattoriale, progressiva che coinvolge principalmente le camere atriali ed è la più comune delle aritmie nella pratica clinica a livello mondiale1. Responsabile del più alto numero di disturbi post-aritmici e di eventi cerebrovascolari tromboembolici, la FA interessa l'1% della popolazione. La sua prevalenza aumenta all'aumentare dell'età passando dallo 0,5% in soggetti tra 50-59 anni al 10% circa negli ultra80enni2. Col progressivo invecchiamento della popolazione, si stima che nei prossimi decenni il numero di individui affetti di FA triplicherà fino a rappresentare un importante problema di salute pubblica. (vedi Tabella 1)
In più del 80% dei pazienti, si presenta associata a ipertensione arteriosa o a insufficienza cardiaca. Considerando che le nuove opportunità terapeutiche aumentano la sopravvivenza nel post-infarto acuto del miocardio, nell'insufficienza cardiaca stessa e nelle valvulopatie, ci si aspetta che un numero sempre maggiore di questi pazienti potrà presentare complicanze croniche tra cui la FA. Indipendentemente dalla presenza di comorbidità, la mortalità nei pazienti con FA risulta da 1,5 a 2 volte superiore a quella dei soggetti con ritmo normale. Gli obiettivi degli studi clinici nella FA hanno sempre messo al primo posto il controllo della frequenza cardiaca e il ristabilimento del ritmo. I risultati di questi studi hanno portato ad un dibattito che è rimasto per diverso tempo nell'ambito della comunità cardiologica. Negli ultimi due anni, nuovi studi clinici hanno modificato questo approccio adottando come misure di esito principali la prevenzione degli eventi tromboembolici, la riduzione del numero di ospedalizzazioni per cause cardiovascolari e sono arrivati a riconoscere i limiti del trattamento con gli inibitori del sistema renina-angiotensina nella prevenzione delle ricorrenze di FA. Scopo dell'articolo è quello di presentare e analizzare i principali contributi dei nuovi trial clinici nei diversi contesti clinico-terapeutici.
Prevenzione della FA
Partendo dalla constatazione che i tradizionali antiaritmici si dimostrano solo moderatamente efficaci nel prevenire le ricorrenze della FA e sono associati ad un'alta incidenza di reazioni avverse, sono stati proposti nuovi farmaci in grado di determinare un effetto sul substrato elettrico e/o strutturale atriale, in modo da evitare il primo evento di FA o di prevenire le ricorrenze.
I farmaci che agiscono sul sistema renina-angiotensina–aldosterone e lo studio GISSI-AF
Tra i nuovi farmaci proposti per la prevenzione della FA vi sono soprattutto gli ACE-inibitori e i "sartani". Analisi post hoc di trials clinici condotti in pazienti con insufficienza cardiaca e/o infarto miocardico o con ipertensione arteriosa hanno valutato il beneficio delle due classi di farmaci nella prevenzione primaria della FA. I risultati di questi studi e delle metanalisi, sebbene contrastanti, indicano unanimemente che i pazienti che trovano maggior beneficio da questi trattamenti sono quelli con disfunzione ventricolare sinistra. Sulla prevenzione delle ricorrenze, i dati fino al 2009 provenivano da studi che avevano incluso un ridotto numero di pazienti, con risultanti discordanti. In questo scenario, i ricercatori del Gruppo Italiano per lo Studio della Sopravvivenza nell'Infarto Miocardico-Fibrillazione Atriale (GISSI-AF)3hanno cercato di rispondere sul piano clinico al problema delle ricorrenze di FA e in uno studio controllato, randomizzato, che ha coinvolto 114 centri, hanno testato l'effetto del valsartan in pazienti in ritmo sinusale con storia di FA e di malattia cardiovascolare. L'endpoint primario dello studio era valutare se l'aggiunta di valsartan alla terapia standard riduceva il tempo medio alla prima ricorrenza di FA e la percentuale di pazienti che manifestavano più di una ricorrenza nel corso di 12 mesi di follow up. Il GISSI-AF, che ha arruolato 1.442 pazienti, rappresenta lo studio clinico più ampio che abbia valutato gli effetti di un inibitore del sistema renina-angiotensina-aldosterone nella prevenzione della FA. I risultati hanno evidenziato che in una popolazione principalmente ipertesa (85%), ma ben controllata, il valsartan non influenza le ricorrenze di FA: il numero di pazienti con almeno una ricorrenza (371/722, 51,4%) nel gruppo valsartan non differiva significativamente da quello del gruppo placebo (375/720, 52,1%). Differenze significative tra i due gruppi non sono emerse nemmeno per quanto concerne la percentuale di pazienti con più di una recidiva di FA nei 12 mesi di follow-up: 194/722 pazienti (26,9%) nel gruppo valsartan e 201/720 pazienti (27,9%) nel gruppo placebo. Anche relativamente agli end-point secondari non è stata evidenziata alcuna differenza (vedi Tabella 2).
Come previsto dal protocollo, è stata eseguita un'analisi per sottogruppi dalla quale è risultata solo una tendenza di beneficio, statisticamente non significativa, a favore del valsartan nei pazienti con storia di insufficienza cardiaca clinica e/o di disfunzione ventricolare sinistra (hazard ratio 0,81; 95% IC 0,48-1,35; p=0,41). Poiché la metà delle recidive si è verificata entro i primi due mesi di follow up, l'editoriale di accompagnamento dello studio commentava che il principale effetto del valsartan era da mettere in relazione alla sua azione sul remodeling strutturale e non direttamente sulle ricorrenze. Se questa ipotesi venisse dimostrata, si potrebbe allora intervenire modificando il substrato, agendo precocemente nella storia naturale dell'aritmia. La domanda rimane ancora senza una risposta definitiva, anche se è evidente che i pazienti del GISSI AF avevano una grave compromissione strutturale e funzionale dell'atrio sinistro, come del resto evidenziato dai risultati del sottoprogetto ecocardiografico4. Infatti, all'ingresso nello studio 173 su 340 pazienti (51%) presentavano un aumento importante del volume dell'atrio sinistro e una compromissione della frazione di eiezione, indice di uno stadio del rimodellamento strutturale, probabilmente già irreversibile.
Profilassi degli eventi tromboembolici
Il 35% degli eventi tromboembolici complessivi ha come causa primaria la FA. Nei pazienti ultra80enni, la FA aumenta di 5 volte il rischio di ictus5, un evento che nei pazienti con FA si presenta particolarmente grave e invalidante. Si può quindi affermare che il rischio di ictus costituisce il problema clinico più rilevante di questa aritmia6. L'anticoagulazione orale con warfarin riduce del 70% il rischio di ictus correlato con la FA, ma, per contro, aumenta il rischio di emorragie maggiori dallo 0,9% al 2,2% e di emorragia intracranica dallo 0,2% allo 0,4%, richiedendo controlli periodici dell'INR e aggiustamenti, a volte frequenti, della dose di farmaco7,8. Nell'ultima decade diversi studi hanno cercato di identificare un farmaco più sicuro ed efficace (o almeno di pari efficacia) come alternativa al warfarin. Purtroppo, per ciascuno dei farmaci testati sono emerse limitazioni specifiche. L'aspirina in associazione al clopidogrel si è dimostrata più efficace dell'aspirina da sola, ma meno del warfarin9. L'idraparinux sottocute si è associato ad un maggior sanguinamento, mentre lo ximelagatran è risultato epatotossico (entrambi i farmaci non sono ancora in commercio in Italia). Il dabigatran è un nuovo anticoagulante orale, inibitore competitivo della trombina che non necessita di controlli frequenti dell'INR e non presenta un elevato rischio di interazioni tra farmaci e con il cibo come il warfarin. Il suo effetto sugli eventi tromboembolici in pazienti con storia di FA e aumentato rischio di ictus è stato valutato in uno studio di "non inferiorità", il RE-LY (Randomized Evaluation of Long Term Anticoagulation Therapy) che ha incluso 18.113 pazienti di 44 Paesi. Il 79% dei pazienti era iperteso, più del 30% presentava una insufficienza cardiaca e il 20% una storia pregressa di ictus10. Lo studio ha valutato il rapporto rischio/beneficio di due dosi di dabigatran, 110 e 150 mg, in confronto con il warfarin. La somministrazione di dabigatran era in doppio cieco, mentre la somministrazione di warfarin avveniva in aperto, aggiustando l'INR tra 2,0 e 3,0 con controlli almeno una volta al mese. Era permesso l'utilizzo di aspirina. Il tempo medio di follow up è stato di 2 anni. L'endpoint primario di efficacia era rappresentato dalla frequenza di ictus o embolia sistemica, mentre l'endpoint primario di sicurezza era la frequenza di emorragie maggiori. Per prima è stata testata la non inferiorità del dabigatran rispetto al warfarin e una volta stabilita si è valutata la superiorità. Per i risultati sugli endpoint si rimanda alla Tabella 3.
Il dabigatran si è associato ad una frequenza di ictus e di embolia sistemica simile a quella associata al warfarin alla dose di 110 mg, ma significativamente inferiore alla dose di 150 mg. Riguardo al sanguinamento, il rischio annuo di emorragia maggiore si è ridotto in modo statisticamente significativo del 20% nel gruppo dabigatran 110 mg vs warfarin (RR 0,80; 95%CI 0,69-0,93; p=0,003) e del 7% nel gruppo dabigatran 150 mg vs warfarin (RR 0,93; 95%CI 0,81-1,07; p=0,31). Una riduzione statisticamente significativa si è osservata anche nelle emorragie intracraniche e nelle emorragie minori e maggiori nel gruppo di pazienti trattati con dabigatran 110 mg (rispettivamente 1,2%, 0,2% e 14,6%), o con dabigatran 150 mg (1,5%, 0,3% e 16,4%) rispetto al warfarin (1,8%, 0,74% e 18,2%) (P<0,005 per tutti i confronti col warfarin). Il rischio infarto miocardico è risultato del 38% più alto nei pazienti trattati con dabigatran 150 mg rispetto al warfarin. Nessuna differenza tra i gruppi in studio è stata osservata nella mortalità totale. Le difficoltà di ottenere livelli ottimali di anticoagulazione con il warfarin sono emerse anche nel RE-LY, uno studio ben condotto dove solo nella metà dei pazienti si era raggiunto tale obiettivo. Recentemente si è avuta notizia che lo studio AVERROES (Apixaban versus Acetylsalicylic Acid to Prevent Strokes) che confrontava apixaban 5 mg/die (un inibitore del fattore Xa della coagulazione) con aspirina (81-324 mg/die) nella prevenzione dell'ictus e degli eventi tromboembolici sistemici è stato sospeso prima dei 36 mesi previsti per la "evidente" superiorità dell'apixaban. Lo studio aveva incluso 5.600 pazienti di 36 Paesi con controindicazioni alla terapia con warfarin.
Dal controllo del ritmo alla diminuzione delle ospedalizzazioni
Di fronte alle evidenze che l'antiaritmico più efficace nella prevenzione delle ricorrenze della FA è l'amiodarone a scapito di effetti indesiderati importanti, si è fatto ricorso ad un farmaco simile all'amiodarone, ma meglio tollerato: il dronedarone, un derivato benzofuranico non iodato, con azione su molteplici canali ionici. Un farmaco che in studi precedenti si era dimostrato di dubbia efficacia nel prevenire le ricorrenze di FA rispetto al placebo, aveva aggravato l'insufficienza cardiaca e aumentato la mortalità in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra, è stato nuovamente oggetto di una sperimentazione clinica (lo studio ATHENA) che lo ha confrontato ancora una volta con placebo11. L'obiettivo primario del trial era un endpoint combinato che comprendeva la prima ospedalizzazione per cause cardiovascolari o la mortalità per qualsiasi causa. Gli endpoint secondari erano rappresentati dalla mortalità totale, dalla mortalità per causa cardiovascolare e dalla prima ospedalizzazione per causa cardiovascolare considerati singolarmente. I criteri di inclusione prevedevano pazienti con FA parossistica o persistente o flutter atriale con almeno uno dei seguenti fattori di rischio: ≥70 anni di età, ipertensione trattata con almeno 2 farmaci antipertensivi, diabete, storia di ictus, TIA o embolia sistemica, diametro atriale sinistro ≥50 mm; frazione d'eiezione ventricolare sinistra <40%. Più dell'85% dei pazienti era iperteso e circa il 20% presentava storia di insufficienza cardiaca (classe NYHA II-III). Durante lo studio, l'incidenza di mortalità generale è risultata più bassa di quanto atteso; questo ha portato a introdurre un emendamento che prevedeva l'innalzamento dell'età minima a 75 anni o un'età compresa tra 70 e 75 anni con almeno uno dei fattori di rischio prima segnalati. Il tempo medio di follow-up è stato di 21±5 mesi. Il tasso di sospensione del trattamento è stato del 30,2% (696/2.301) nel gruppo dronedarone e del 30,8% (716/2.327) nel gruppo placebo. Il dronedarone ha ridotto l'endpoint primario nel 24% dei pazienti (Tabella 4).